Tre liriche del Leopardi (1950)

W. Binni, Tre liriche del Leopardi, Lucca, Lucentia, 1950; poi raccolto, dall’edizione 1967, in La nuova poetica leopardiana cit. (appendice).

tre liriche del LEOPARDI

La mattina del 29 aprile 1830 il Leopardi partiva da Recanati che non avrebbe piú riveduto. Il 10 maggio giungeva a Firenze accolto «a braccia aperte» dagli amici a cui doveva la possibilità stessa di questo ritorno. E bisogna subito dire – senza perciò intendere che da questa breve descrizione biografica si voglia fare discendere deterministicamente un ritratto spirituale e addirittura una condizione di poesia – che il nuovo periodo fiorentino si apriva con un certo impeto di vitalità che supera in durata e profondità quelli simili di altri viaggi e di altri cambiamenti.

Il soggiorno recanatese che gli aveva riportato i ricordi della fanciullezza e dell’adolescenza, il materiale poetico dei grandi idilli, lo aveva anche reso tanto piú desideroso di impegni affettivi, di incontri, di una solitudine riscaldata da vicinanze umane, di una eco di simpatia su cui far sorgere assoluti, ma non spietati, i suoi motivi poetici, specie dopo l’esaurimento delle suggestioni idilliche, dopo un bagno nel ricordo in cui la dolcezza del «tempo perduto» e la stessa possibilità poetica si erano ormai realizzate pienamente e perciò svuotate di fascino per lui. Il mito di Recanati, dei cari e melanconici luoghi della prima giovinezza, che lo aveva sorretto per anni guidando segretamente o scopertamente la sua poetica piú intima, si scioglie in una realtà di poesia oltre la quale non rimangono riserve di sentimento e di intuizioni poetiche: e al suo posto sorge un desiderio d’impegno, una considerazione piú immediata e combattiva del presente. Al fascino suadente e complesso di un mondo caldo e fantastico nel proprio evocarsi, intriso di affabilità e di nostalgia lucente e malinconica, subentra, all’inizio del periodo fiorentino, un impulso quasi istintivo – ma profondamente leopardiano e legato al senso dell’eroico e dell’attivo vagheggiato sia pure da posizioni meditative – un bisogno di vita e di passione che supera i limiti dell’esperienza amara e presta una realtà sentimentale alle illusioni nuovamente invocate in una zona di sensibilità non piú giovanile e sognante: in una potente e posseduta maturità che non cerca piú compensi di passata felicità, quanto immediate possibilità di affetti, di «persone», non di figure labili nel ricordo.

Le vecchie amicizie e le nuove relazioni (fra cui quella appassionata con il Ranieri e quella amorosa con la Fanny) sono impiantate su di un senso fremente e assoluto della comprensione e dell’affetto che, vivo sempre nel Leopardi (si pensi a tutto il suo epistolario), assume in questo periodo toni piú intensi e sicuri di uomo tra gli uomini e non di semplice spettatore appassionato. Un «nuovo risorgimento» chiamò quest’inizio fiorentino il Gioberti (v. Epistolario VI, p. 140); ma si faccia attenzione a non appiattirlo con un facile accostamento al «risorgimento» pisano, in cui tutta quella sentimentalità, quella attenzione risvegliata si rivolgeva però a soluzioni di idillio dentro le stesse relazioni di affabile, tenera amicizia. Qui l’impostazione del sentimento è diversa, e persino è presente un certo gusto di attività pratica tutto nuovo, nel condurre avanti le trattative per l’edizione fiorentina dei Canti. E testimonianza di questo ritmo interno accelerato, di questa vitalità piú sicura, di questa nuova considerazione del presente, sono per noi le lettere di quel periodo. Gioiose ed ansiose spesso, come di chi attende qualche grazia dalla vita e si svolge da una contemplazione interna dei propri affetti e ricordi verso una speranza e una volontà di impegni e di incontri. «Mi trovo affollato di visite e tutti mi fanno complimenti sulla mia buona cera» scriveva appena arrivato il 12 maggio al padre, e tutta la lettera a Paolina, in data 18 maggio (Epist. VI, 5), è mossa da questo entusiasmo, da questo senso di sé e degli altri come «persone», da questo fervore un po’ elettrico di amicizie e relazioni: «sempre in giro a restituir visite. Nuove conoscenze, nuove amicizie» (Epist. VI, 10).

Senso vitale, che nel tono piú rapido e perentorio delle lettere porta ad affermazioni recise della propria dignità personale sentita ormai come completa nel giro di ideali incrollabili, per cui nel ’31 (27 ottobre, a G. P. Vieusseux) dirà contro alcuni pettegolezzi che mettevano in dubbio la sua costanza ideale: «Questo amerei che ripeteste a chi parla di prelature o di cappelli, cose ch’io terrei per ingiuria se fossero dette sul serio. Ma sul serio non possono esser dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimo la mia maniera di pensare, e sapendosi ch’io non ho mai tradito i miei pensieri, e i miei principi colle mie azioni». E in quale atmosfera morale come in questa tensione e certezza del proprio valore, troverebbe una nascita piú naturale la famosa affermazione della validità del suo pensiero al riparo da ogni misera spiegazione di carattere medico?

«Ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante je n’ai pas hésité à l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’à été que par effet de la lâcheté des hommes qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circostances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes maladies» (al De Sinner, Epist. VI, 176).

Ecco, in testimonianze di piú nude e istintive reazioni vitali, come in quest’altissimo documento della personalità leopardiana al punto della sua maturità piú sicura, si ritrova in gradazioni diverse e complesse questo tono nuovo che corrisponde a un nuovo impulso verso il presente e ad un nuovo senso del proprio valore. Intensità di passione, bisogno di «persone», certezza del proprio mondo interno e della propria esperienza, caratterizzano questo Leopardi che nel periodo fiorentino preparava in una storia – non in una cronaca – di sentimenti intensa e nuova, una poetica e una poesia veramente sconcertanti per chi ha del Leopardi l’immagine dello «spettatore alla finestra», della «vita strozzata» e soprattutto del poeta idillico che solo nell’armonia del canto di ricordanza, nella conclusione di paesaggi sentimentali sa esprimere la sua sensibilità unicamente idillica. E l’amore per la Fanny Targioni Tozzetti, fuori del gusto pettegolo della vicenda nella sua parabola di speranze, di delusione («E di Leopardi che n’è? io già sono nella sua disgrazia, non è vero? ed il grand’amore si convertí in ira...» scriveva la «dotta allettatrice» al Ranieri in data 31 ottobre 1835), facilmente ridicolizzabile dall’esterno, porta la testimonianza piú decisiva di questo speciale tono di tensione al «presente» che caratterizza il Leopardi degli anni fiorentini e che passa poi ancor piú profondo ed implicito nella forza di protesta e di appello del creatore della Ginestra. Come ugualmente in quell’epoca la passione, il bisogno di affetti colorano l’amicizia con il Ranieri sino a forme convulse, a volte quasi ebbre: «Vorrei che ogni parola ch’io scrivo fosse di fuoco, per supplire alla dolorosa brevità comandatami dai poveri infelici miei occhi...» (12 gennaio 1833). «Amami, anima mia, e non iscordarti, non iscordarti di me...» (24 novembre 1832).

Stato d’animo di eccezionale importanza, ma non del tutto legato a particolari avvenimenti, e piú che stato d’animo un nuovo senso di sé, un’approfondita esperienza interiore che, rivelatasi energicamente in occasione di particolari pretesti, anima tutta la vita dell’ultimo Leopardi e giustifica dall’intimo un nuovo sentimento della poesia scioltosi ormai dalla poetica idillica cosí compatta ed unitaria e teso ad una poetica di impegno nel presente, ad una poetica dell’«esperienza di sé». Una poetica evidentemente non priva di appigli nella precedente opera leopardiana, ma certo presentata nel Pensiero dominante con una forza di novità veramente sconcertante. Sí che il giudizio piú accreditato – specie nell’ambito della critica crociana piú ortodossa – fu per una limitazione e per una impressione di decadenza dopo il trionfo del canto nei grandi idilli. Platonismo, alto ragionamento in versi, abdicazione alla purezza precedente sembrano rinchiudere in limiti invalicabili la poesia di questi ultimi canti fino alla Ginestra ed ogni accenno di movimento idillico, ogni colore di paesaggio vengono salutati con gioia come un accenno di ritorno poetico in contesti nobili, ma fiacchi ed eloquenti.

E certo chi giunge al Pensiero dominante con l’impressione del canto sereno del Sabato del villaggio o della Quiete dopo la tempesta non può non provare disorientamento e insoddisfazione:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lúgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

Che ritmo potente e rapido, che forza di parole massicce e scure, prive di fascino sensuoso, di indugio di canto! E quale diversità dal ritmo disteso, armonioso, dalla consistenza tenue ed essenziale del lessico poetico dei versi idillici:

Già tutta l’aria imbruna,

torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre

giú da’ colli e da’ tetti,

al biancheggiar della recente luna

(Sabato del villaggio).

Diversità, non decadenza. E diversità di poetica, di direzione artistica che è confermata da un atteggiamento spirituale diverso da quello che sorregge la poetica idillica. Per alcuni critici, dal Croce in poi, il vero Leopardi è quello della poetica idillica e lo studio di un crociano, F. Figurelli (Leopardi poeta dell’idillio, Bari 1941), ricostruisce la poeticità stessa leopardiana in un atteggiamento spirituale contemplativo coerentemente idillico. E per questi critici che pure hanno portato un contributo essenziale alla determinazione di un altissimo momento della poesia leopardiana, l’attività che segue al Canto notturno è invalidata dalla perdita dello stato di grazia idillico, dalla caduta in forme eloquenti, passionali, letterarie. Sicché la «poesia» del Pensiero dominante e di Amore e Morte appare qua e là come ritorno al motivo ispiratore valido e non legata ad un atteggiamento spirituale e ad una poetica particolare.

Occorre dunque, secondo me, pur con la maggiore cautela e con la massima chiarezza circa il risultato altissimo dei grandi idilli (non pensando cioè che una valutazione positiva dell’ultima lirica leopardiana e soprattutto l’affermazione dell’esistenza di una nuova poetica implichi una diminuzione dei grandi canti precedenti o un paragone assurdo a loro svantaggio), osservare che con il Pensiero dominante si inizia una nuova fase dello svolgimento poetico del Leopardi, si attua una nuova poetica con propri caratteri e con proprie linee costruttive, e che questa poetica si appoggia ad un atteggiamento combattivo, eroico, intensamente «personale» di un Leopardi cosciente sempre piú del valore del proprio mondo interno e deciso ad affrontare il presente, ad affermarsi romanticamente con la propria certezza sentimentale e filosofica.

Questa poetica della personalità, nel senso piú romantico di questa espressione, continua durante tutti gli ultimi anni della vita del Leopardi e culmina in forme grandiose e rudi nella Ginestra nutrendosi di diverse esperienze sentimentali (amore, amicizia appassionata, delusione) e avvicinandosi sempre piú ad una affermazione religiosa ed assoluta in una costante linea di ritmo forte, di forme piú intense che armoniche, di tensione portata nei minimi particolari stilistici.

Noi ci limiteremo ad esaminare come esempi di questo nuovo metodo leopardiano e come effettive opere di poesia sorta da una particolare storia dell’anima, i primi canti nuovi, dal Pensiero dominante a A se stesso, senza voler con ciò – lungi da noi simili intenzioni di poesia romanzata – fornire una specie di illustrazioni poetiche all’amore del Leopardi per la fiorentina Aspasia, ma ricordando che un formidabile sentimento d’amore – nuovo anch’esso nel suo tono di passione nella vita sentimentale del Leopardi – fu il pretesto potente per la nuova poetica nel suo distacco dalle esperienze precedenti, e che in quel tono di passione cosí diverso dal vagheggiamento nostalgico, che circonda le figure femminili degli idilli, poté non astrattamente costruirsi un nuovo metodo poetico, appoggiato al principio essenziale del «presente» che porta le sue tinte decise, non sfumate, anche in eventuali sogni fino a scadere a volte in forme pratiche, di compenso: come negli idilli vi era il pericolo di un abbandono quasi arcadico.

Non sono dunque i canti che presento e commento, i canti dell’«amore fiorentino», come avverrebbe in una accentuazione puramente biografica, ma un primo gruppo di canti che, sul pretesto di un sentimento vivo ed attivo, realizzano una poetica della personalità e del presente. E l’amore ben serve alla prima affermazione di questa poetica presentandosi come forte esperienza di sé, collaborando all’impressione personale di una trasformazione assoluta in cui il senso della vita si cambia da fantasia a realtà. Proprio quella esperienza di sé di cui parla il Leopardi al pensiero LXXXII: «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita... Il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo piú dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare... Certo all’uscire di un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocramente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desideri intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze... In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non piú felice, ma per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di sé e degli altri».

1. Il Pensiero dominante

Lo stupore che giustamente si prova passando dall’ultimo grande idillio, Canto notturno, al primo dei nuovi canti è certo attenuato dalle considerazioni da noi esposte sul nuovo atteggiamento spirituale del Leopardi, sul carattere insieme profondamente giustificato e cosciente di una poetica che presuppone nell’intervallo ripensamenti estetici in accordo con una nuova lettura dei propri sentimenti piú intimi a quella profondità in cui senso dell’esperienza vitale e ispirazione poetica piú si avvicinano.

Se già nel Canto notturno si potevano notare, rispetto all’impasto piú tenero e puro del Sabato o della Quiete, delle punte piú aspre e qualche suono piú metallico ed intellettuale da far ripensare alla canzone Alla sua donna, basta ripensare al celebre inizio con le sue mosse blande e concluse, con i suoi tipici interrogativi di idillio malinconico (in cui il Leopardi riprendeva originalmente essenziali cadenze preromantiche)

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna? –

per collocarsi in una sfera poetica di tensione placata, di armonia sensibile che viene sconvolta dall’inizio ardito e massiccio del Pensiero dominante:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lúgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

Qui, nei versi che sembrano un bando di poetica, un sentimento si presenta in primo piano senza l’armonico appoggio di un paesaggio, di un’aura di ricordo, di una tenue linea di quadro, e, in un tono di intensa e assorta adorazione, si identifica con la stessa personalità del poeta, viva in quella passione. Le «illusioni» perdono il loro carattere, vago e affascinante proprio per la loro conscia labilità, si fanno vive e reali nella passione che è insieme passione d’amore e affermazione di una personalità urgente e bisognosa di altissima, intensissima vita. Solo un certo ripensamento a posteriori verifica ancora la natura fittizia delle illusioni e persino del pensiero d’amore

(Ahi finalmente un sogno

in molta parte onde s’abbella il vero

sei tu, dolce pensiero;

sogno e palese error...)

che pure spesso «al ver s’adegua», ma come nel Risorgimento le illusioni apertamente riconosciute come tali sono assicurate vive soprattutto nel ricordo di un’età beata, tra fanciullezza e adolescenza, cosí nel Pensiero dominante le illusioni riconosciute come «leggiadri errori» (e questo riconoscimento è essenziale alla filosofia «disperata, ma vera» su cui sorgerà la Ginestra) vivono però in un tono di certezza in quanto si unificano nella personalità, nel sentimento del poeta, ne costituiscono il mondo interiore disilluso e nobile, di fronte al disvalore costituito dalle «basse voglie», dai sentimenti inferiori della vita animalesca della mediocre umanità. Anzitutto dunque una poesia estremamente unitaria nel suo centro animatore (il pensiero di amore tanto assoluto e profondo che non viene neppure qualificato come pensiero d’amore rimanendo ad uno stadio di tale profondità da assumere il tono di un pensiero religioso, della voce piú pura di una personalità che ha fatto i suoi conti con il sentimentalismo e con ogni forma di impura vanità) che si ripercuote in tutto il componimento come assoluto protagonista in una composizione a raggio piuttosto che in svolgimento lineare: perché in ogni strofa pulsa con la stessa forza e con la stessa volontà di presenza il pensiero d’amore ed ogni strofa piú che con la precedente e con la successiva è direttamente legata ad un centro poetico che si irraggia con ritmo, vario come cadenza, ma ugualmente potente e nutrito di sostanza poetica. La «torre in un solitario campo» dei vv. 19-20 è bene il simbolo severo di questo pensiero animatore, di questo centro poetico, come il ritmo impegnativo, perentorio del canto rappresenta ben altra ricerca da quella, mettiamo, delle Ricordanze in cui il motivo del ricordo si frammenta in un successivo affiorare di sensazioni e di ricordi, in un sinuoso svolgersi della memoria poetica.

Tutto è riferito con insistenza, e con una voluta insistenza, quasi di culto, al pensiero d’amore che viene per lo piú invocato con l’affettuoso «tu» o adorato con il religioso «Lui». E tutto si alza nel presente, nel valore del presente di fronte a cui il passato è ricordo di un tempo piú frivolo, meno vivo perché mancante della presenza del pensiero dominante. Nel canto Alla sua donna il poeta si rifugiava in una invocazione fra sospirosa ed ironica, in un’aria quasi metafisica, astrale; qui invece il contatto con l’ideale è sicuro e appassionato, verificato in tutta la vita presente del poeta che può dire: «e ristora i miei sensi il tuo soggiorno». Espressione di un platonismo ardente e romantico in cui il pensiero d’amore pare insieme trascendente e immanente all’anima del poeta e provoca quella speciale tensione e insieme quel calore non astratto – non di «fiamma lontana» – che è tipico di questo canto e dà al platonismo leopardiano («il mio antico platonico» lo chiamava il Bunsen in una lettera del ’35) un tono di concretezza e di esperienza interiore e totale che sarà dissolto solo nella dissociazione di Aspasia fra l’immagine «angelica» e l’idea eterna, quando, per le vicende biografiche approssimativamente a noi note, il poeta dové confrontare il «pensiero dominante» con la sua immagine sensibile femminile. Ma qui ogni alito di sensualità si sublima in passione, e ogni elemento esterno è eliminato per la prepotenza singolare di una poesia spirituale in una eccezionale condizione di unità personale, in una rara coscienza di totale poeticità: «sott’altra luce che l’usata errando».

Ancora una volta dobbiamo osservare come il passato sia fievole, pallido di fronte al presente la cui determinazione suona sempre come un innalzamento improvviso alla vera realtà, ad una realtà eroica in cui ogni nobiltà d’animo precedente è superata in un impeto senza riserve, ben evidente nello scatto del verso, nel battere del ritmo:

Giammai d’allor che in pria

questa vita che sia per prova intesi,

timor di morte non mi strinse il petto.

Oggi mi pare un gioco

quella che il mondo inetto,

talor lodando, ognora abborre e trema...

Sempre i codardi, e l’alme

ingenerose, abbiette

ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

subito i sensi miei...

Se questa è la struttura interna del canto (ed abbiamo visto quanto nuova e quanto insieme legata al senso piú profondo del romanticismo leopardiano vivo anche sotto le sue forme piú note e incantevoli di idillio elegiaco), tutti i particolari stilistici si adeguano con sicura coscienza di costruzione ad alcune linee essenziali di poetica: eliminazione di ogni rappresentazione colorita, di armonizzazione di paesaggio, di similitudini sensuose, creazione di un clima assoluto, eroico, in cui sorge una musica aspra e potente con rifiuto di tenero canto. La pienezza sentimentale che può decadere in sfogo fantastico come in Consalvo, qui è mantenuta in saldi limiti poetici e lungi dal distendersi in canto di declamazione, in tenerezza abbandonata (come parve al Flora), si realizza, attraverso una sicura guida di metodo costruttivo, in poesia eroica, in poesia della personalità appassionata.

Un esame delle singole strofe (non solo come serriano commento di lettura) funzionale alla verifica della poetica nuova del Leopardi, serve insieme a rilevare i caratteri costruttivi e poetici e a dimostrare che autentica poesia è qui nata a realizzare in sé la personalità leopardiana nella sua nuova situazione spirituale.

L’esempio piú perfetto della nuova poetica e della nuova poesia è certo presentato subito dalla prima strofa: l’espressione piú grandiosa di uno stato d’animo eroico, sicuro e religioso (la certezza del valore legata alla certezza della propria personalità) in un ritmo ascendente verso la fine, impetuoso ed urgente e pure scandito e schematico che sembra sostituire ogni sintassi logica presentando le parole quasi senza legame di verbo, affacciate alla superficie sonora da una spinta di pura musica, da una zona in cui il sentimento si trasforma in poesia senza passaggi logici o di tenerezza sentimentale:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lúgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

Tutto contribuisce a questo tono perentorio, piú che gioioso religioso (e pur senza il torbido incontro fra misticismo, estetismo e sensualità che si può trovare in Novalis o diversamente in Keats), e l’originalità della costruzione scarna e ferrea corrisponde all’originalità dei valori fonici: si pensi al primo verso con i due aggettivi massicci e simbolici (Dolcissimo, possente) accentuati nel loro interno dalla doppia «s» di indubbia volontà di tensione. E si noti l’accentuazione quasi giambica nei due endecasillabi che non possono sfuggire una lettura vibrante, rapida e sostenuta.

Anche il lessico adibito a questa costruzione poetica è quanto mai omogeneo nella sua nuda solennità, in cui il «pellegrino» di origine petrarchesca non ritorna all’uso piuttosto retorico delle canzoni giovanili e, senza fondersi col «popolare» idillico, trova una intonazione alta, «spirituale» assoluta, estremamente aristocratica, ma non ironica e raffinata come ad es. nel canto Alla sua donna. Sicché una parola come «consorte» in legame con «giorni» è sí ritrovabile nella traduzione dei Nuovi Canti di Ossian del Leoni (Dargo, Nuovi Canti, vol. III, p. 90, 3a ed., Venezia 1818), ma è risentita priva della tipica suggestione preromantica che nei grandi idilli corrispondeva ad una tipica inclinazione di canto tenero e dolente. Come le espressioni piú intense rifuggono da ogni indugio di canto e di nostalgia alla stessa maniera che la linea costruttiva si tende unica e verticale, quasi senza alone di echi sentimentali e fonici rappresi nella unitaria ricchezza della poesia: cosí quel rapido accenno «lúgubri miei giorni» asservito alla linea predominante del vocativo.

Ugualmente nella seconda strofa i tipici interrogativi leopardiani si sono fatti vibranti e risoluti, non indugianti e nostalgici come nei grandi idilli, e nell’attesa da loro creata non si apre una frase sommessa e malinconica come ad esempio nella Sera del dí di festa («Tutto è pace e silenzio e tutto posa...») o nel finale delle Ricordanze («Altro tempo. I giorni tuoi / furo, mio dolce amor...»), ma si presenta un’espressione rafforzata affermativamente. Dopo la potente posizione della prima strofa che imposta il tema e dà il modulo del ritmo, questi interrogativi portano una prima variazione sempre coerente e intonata, mentre l’unicità del «pensiero dominante» proposta nella prima strofa ritorna qui come obbiettiva e piú distaccata nel rapido passaggio da un «tu» («tua natura») piú immediato e affettuoso ad una terza persona («suo poter», «effetti suoi», «ei») che accentua l’altezza universale e il carattere religioso di quel valore e del suo culto in noi. Tanto che a me non pare dubbio che queste forme di terza persona siano tutte attribuite ugualmente al pensiero d’amore (è evidente la vicinanza di quel «ragiona» al dantesco «amor che nella mente mi ragiona» che dichiara la natura del «pensiero dominante» senza nominare direttamente la parola «amore»), che poi nella terza strofa campeggia piú decisamente nel nuovo movimento esclamativo e nell’immagine caratteristica della «torre», la cui solitudine gigantesca è preparata dal velocissimo movimento della mente che si sfolla fulminea (piú che dall’esplicito paragone visivo del lampo) ed è realizzata in una immedesimazione della potenza solitaria della torre con quella, ben piú rilevata nell’ultimo verso, della unicità e solidità del pensiero dominante nella mente del poeta. Altra prova questa della singolare costruzione di questo canto, della poetica «forte» che vi si applica e soprattutto della ispirazione continua ed unitaria che riempie schemi tecnici di una sostanza poetica uniforme e ricca. La mancanza di riferimenti a immagini sensuose, cosí chiara anche nelle scarse similitudini rapide e piú lineari che colorite, è pari alla essenzialità del lessico la cui forza è trasferita piuttosto che nella sua novità, nella sua capacità insieme scabra ed elegante di collaborare ad un tono tutto spirituale, ad un impeto e ad un’estasi che nasce dalla zona piú profonda e assoluta della personalità. Il disprezzo per l’incanto del paesaggio e della tenerezza sentimentale e musicale a favore di una forza espressiva unita e sinfonica, corrisponde alla volontà particolare di creare un senso di solitudine e di frattura in cui il motivo dominante si libera al di sopra di una rovina grandiosa di sentimenti, di abitudini, di illusioni mediocri (il mondo dell’esistere comune), con una tensione rapita e appassionata che si rivela negli esclamativi, nelle ripetizioni («gioia, gioia celeste» vv. 27-28; «tutte l’opre terrene, tutta intera la vita ecc.» vv. 22-23), nelle parole piú tese e ardenti («vogliosamente» v. 34) e, d’altra parte, nell’appiattimento sprezzante e sicuro di tutto ciò che è disvalore, negatività mediocre e fastidiosa sia nella forza risoluta delle parole («il mondo sciocco» v. 38) sia nelle sottolineature del ritmo orgoglioso che risale rapidamente dagli accenni al mondo, all’esaltazione della personalità persuasa del valore ideale. Quel senso di estasi e di convinta superiorità del valore amoroso che sa trasformarsi in movimenti poetici di straordinaria efficacia e coerenza («quasi incredibil parmi... quasi intender non posso» vv. 37, 41), di respiro vasto e sicuro, non decade mai in turgore incontrollato, e ciò che il lettore deve sentire entrando in questo mondo cosí romantico e cosí posseduto (diversamente da altri mondi romantici piú sensuali e mistici) è appunto la traduzione di motivi sentimentali, appoggiati ad una complessa spiritualità, in linee poetiche, con la purezza e la nettezza con cui ciò avviene in una sinfonia.

Il pensiero dominante è unico nella mente del poeta, lo libera da ogni altro pensiero, si contrappone ai desideri mediocri degli uomini, provoca la piú chiara coscienza della superiorità sua e del poeta che ne è posseduto sul mondo sciocco, pauroso della morte e vivo di varie e frivole speranze retoriche. Ebbene, questo motivo essenziale per il Leopardi di questo periodo – non piú solo critica e scherno, ma sicurezza di superiorità e volontà di affermazione – lungi dal rimanere elemento da decorare e da decantare in una poesia idillica (come è stato sempre il segreto o esplicito desiderio di molta critica), si crea, attraverso una cosciente e complessa poetica, delle linee, dei movimenti in una vasta costruzione in cui le singole strofe costituiscono altrettanti movimenti del grande tema centrale. Cosí le due grandi strofe 7a e 8a legate visibilmente dall’inizio perentorio con gli avverbi di tempo piú estremi: «giammai», «sempre», nell’esprimere piú chiaramente il motivo del disprezzo della morte e della frivolezza contemporanea, nel loro movimento di progresso da un passato a un presente piú vero, traducono tutto ciò in un colore di linguaggio e in un ritmo ascendente (che culmina nel forte stacco del v. 65 «maggior mi sento» dopo il lungo e complesso periodo precedente) affermativo ed estremo. Espressioni estreme, calcate («alme ingenerose, abbiette», «mondo inetto», «umana viltà»), verbi di estrema efficacia («ognora abborre e trema», «ebbi in dispregio», «calpesto», ecc.), mosse decise e dure, abbondanza di avverbi ad accrescere l’effetto antipittoresco, la mancanza di colore sensuoso, ma, si noti bene, non l’effetto di una retorica e di un esercizio di stile, come neppure il casuale risultato di uno stato d’animo occasionale. Quando diciamo che questi nuovi canti rispondono ad una poetica certamente rinnovata rispetto a quella idillica, indichiamo insieme l’alto piano letterario e stilistico, la coscienza artistica con cui il Leopardi coordina le sue nuove esigenze e prepara loro un esito poetico e, naturalmente, l’essenziale presenza di un mondo sentimentale bisognoso di una sua particolare espressione.

Dopo il motivo del disprezzo della morte e del «volgo» (motivo essenziale di questo periodo fino allo svolgimento pieno nella Ginestra), l’esigenza del tema (unicità e incomparabilità del pensiero dominante come unico e vero valore vitale) si esprime in altre due strofe: prima ripetute mosse interrogative (l’interrogativo movimenta e porta, pur nella sua risolutezza, un’onda piú piena di musica) crescenti di intensità e di ampiezza (fino al bellissimo e tumultuoso accumulo di parole, le parole della sensualità mondana qualificate peggiorativamente come «voglie» nella fanatica distinzione del valore e disvalore essenziale a questo canto:

Avarizia, superbia, odio, disdegno,

studio d’onor, di regno,

che sono altro che voglie

al paragon di lui?),

poi, tra la fine di una strofa e l’altra nella sua interezza, l’affermazione dell’unicità intorno alla prepotente presenza del «solo» (v. 76), e di espressioni simili: «quest’uno», «se non per lui» ecc.

Sulla fine della strofa 10a il movimento pare ingentilirsi e impreziosirsi

(solo per cui talvolta,

non alla gente stolta, al cor non vile

la vita della morte è piú gentile)

con la rima interna e l’inversione del «non», con un certo rallentamento elegante. La strofa seguente approfitta di questa offerta e un movimento affascinante si pronuncia, non certo eterogeneo alla linea del canto ed anzi adatto ad indicare la ricchezza e la possibilità di variazioni di questa poesia che è a volte apparsa sterile e monotona. Quasi un movimento di danza e di estasi affettuosa in un giro elegante e sinuoso e denso

Per côr le gioie tue, dolce pensiero,

provar gli umani affanni,

e sostener molt’anni

questa vita mortal, fu non indegno.

Ma poi un’immagine tetra e cupa (preannuncio chiaro delle immagini della Ginestra), l’immagine del «mortal deserto», «tra le sabbie e tra il vipereo morso», rinvigorisce il periodo nel suo esito al solito rilevato e teso.

Ma certamente quel tanto di tenerezza che era insito nell’esaltazione del pensiero amoroso accanto all’impeto piú severo nella affermazione del valore e della propria personalità con quella identificata, si è qui addensato in una musica piú calda e ardente in cui pare ritornare qualcosa di altre poesie leopardiane piú cantate e sensibili, piú ariose e meno potentemente ritmate. Ma si tratta in realtà di una pienezza piú appassionata, senza la precisa funzione del «vago» e dell’indefinito sopraffatto dalla vastità della costruzione e dal senso nuovo di un mondo piú posseduto che sospirato.

Che mondo mai, che nova

immensità, che paradiso è quello

là dove spesso il tuo stupendo incanto

parmi innalzar! dov’io,

sott’altra luce che l’usata errando,

il mio terreno stato

e tutto quanto il ver pongo in obblio!

Un emistichio raffinatissimo con rima veramente preziosa fra la prima e l’ultima parola («tali son, credo, i sogni degl’immortali») – forma simile ad altre del canto Alla sua donna ed anche del Canto notturno – interrompe l’impeto di estasi e introduce su di un tono lieve, ma senza abbandono, la possibilità di una pausa e di un dubbio: «sogno e palese error».

E certo tutto il canto si avvantaggia di questi momenti di esitazione e di voce piú tenue mostrando d’altra parte quanti legami congiungano il nuovo e rivoluzionario Leopardi a quello dei canti del periodo idillico. Ma dubbio e movimento di sospirosa concessione hanno poca durata e la stessa strofa si chiude ancora con una mossa rilevata e forte e con una affermazione di verità dell’errore e di persistenza sino alla morte. Solito uso di avverbi lunghi e forti, di rime a rinforzo, di slancio finale con esito in una espressione intensa:

perché sí viva e forte,

che incontro al ver tenacemente dura,

e spesso al ver s’adegua,

né si dilegua pria, che in grembo a morte.

La parola «morte» (si pensi al tema che domina il canto seguente) viene ripresa nella penultima strofa in uno di quei versi battuti e senza dolcezza che sollevano tutto un movimento e lo guidano al suo significato piú pieno:

meco sarai per morte a un tempo spento.

E la vitalità del pensiero amoroso riconosciuto sí come illusione, ma simile al vero, capace di resistere al vero, è affermata non ragionativamente, ma poeticamente nell’espressione persino insolita letterariamente «tu solo vitale ai giorni miei», mentre il carattere di durata e di dominio è riaffermato senza esitazione come implicita risposta all’ammissione del pensiero come illusione:

che in perpetuo signor dato mi sei.

È poi in quest’ultima parte del canto che un motivo essenziale viene ad arricchire la linea potente ed unitaria (ma anche straordinariamente viva di movimenti e di variazioni immediatamente usufruite dallo svolgimento del tema): il motivo finora nascosto della vita reale e individuata del pensiero dominante in una donna. È anzi il motivo piú nuovo nel platonismo leopardiano dato che la possibilità di una realtà di donna, degna di amore, era stata praticamente negata nel canto Alla sua donna e sarà nuovamente negata, senza distruggere affatto la speciale realtà, il valore del pensiero dominante in Aspasia, quando violentemente saranno separate l’immagine della donna reale e quella della donna ideale che si identifica con un pensiero e in definitiva con la personalità stessa del poeta.

Ora questa coincidenza esiste e l’«angelica beltade» vale come fonte concreta della passione. Non è piú la «cara beltà» della canzone Alla sua donna cosí stilizzata, sottile, quasi ironica: qui l’angelica beltade è la donna che ancora occupa la sua fantasia in Aspasia con la sua opulenta bellezza, la donna che accumula su di sé suggestioni petrarchesche e rinascimentali e risolve in un tono di piú esplicita passione amorosa, di adorazione, la tensione di tutto il canto. Presenza della «angelica beltade» che porta un maggiore calore nella robustezza di questo canto di affermazione ideale, già preparato del resto a ricevere non immagini, ma toni caldi nella sua lontananza da stilizzamenti e rabeschi, e una conclusione altissima, specie nell’ultima strofa di questa musica vigorosa e impeccabile.

Ultima strofa di originalità pari alla sua forza espressiva e alla sua ricchezza ed unità musicale. Calda di un calore piú denso e di un’urgenza piú gonfia, l’esaltazione della angelica beltade e del pensiero dominante (che all’inizio seppe presentarsi piú severo e solenne) si svolge in una serie originalissima di interrogativi: piú affrettati e incalzanti i primi tre, piú ampio ed abbracciante il quarto che nasce quasi da un vocativo con una mossa quanto mai ardita e coerente a questa tipica sintassi musicale, e l’ultimo replicante con piú slancio e forza conclusiva la figura del primo:

Da che ti vidi pria,

di qual mia seria cura ultimo obbietto

non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

ch’io di te non pensassi? ai sogni miei

la tua sovrana imago

quante volte mancò? Bella qual sogno,

angelica sembianza,

nella terrena stanza,

nell’alte vie dell’universo intero,

che chiedo io mai, che spero

altro che gli occhi tuoi veder piú vago?

altro piú dolce aver che il tuo pensiero?

2. Amore e Morte

Se volessimo fare la storia dell’amore fiorentino del Leopardi e non la storia della sua poesia e della sua poetica in questo periodo, saremmo assai imbarazzati a costituire un preciso momento e un passaggio fra Il Pensiero dominante e Amore e Morte o potremmo presupporre che dopo il periodo piú teso e puro in cui il Leopardi visse la sua passione senza provocare un preciso atteggiamento della Fanny, seguí un periodo di turbamento e di incertezza quando si venne profilando il rifiuto della donna, o l’alternarsi di civetteria e freddezza. Il tema della morte come soluzione dell’amore infelice e tormentato si accompagnò a quello dell’amore come valore superiore e finalmente venne prevalendo come nel finale della lirica di cui parliamo.

Cronaca psicologica che non vorremmo approfondire: certo ad un impeto piú indiviso ed entusiastico seguí un’intenso lavoro interno di accordo del sentimento d’amore e del suo valore di esperienza personale rinnovatrice (quel valore che è fondamentale per tutto il nuovo periodo e per tutta la nuova poetica) con le linee essenziali del pensiero e della intuizione umana del Leopardi. Infelicità e amore, morte e suprema esperienza di sé, disperazione e tensione, e soprattutto persuasione della situazione umana e senso di superiorità combattiva e affermativa, vengono a fondersi in un atteggiamento piú che amaro deciso e superiore, di intensa vitalità. Il poeta dell’esperienza di sé vive particolari condizioni sentimentali, ma non ne è sopraffatto (come in una semplice storia d’amore), ne nutre la sua esperienza, la sua poesia, il suo pensiero. E si pensi fuori dei Canti al tono speciale del Dialogo di Tristano e di un amico, in cui, ben lontana ormai dal tono predominante nelle Operette morali, accanto a forme di ironia piú distaccata e severa che mordente e risentita, sale, sopra le polemiche laterali e piú minute contro le gazzette e la civiltà tecnica, una piú decisa polemica contro la viltà e la frivolezza, un’affermazione amara e piena della propria persuasione. Il grande finale, il grande inno alla morte, realizzato interamente nel nuovo gusto dell’impeto e della forza dominata, ma urgente, ha forti somiglianze con il finale di Amore e Morte e ci serve a situare meglio il canto in una ricerca stilistica omogenea e in un momento spirituale ben preciso anche se non cronisticamente ricollegabile a vicende minute e aneddotiche. Già nel Pensiero dominante la morte era affiorata come termine di prova dello stato d’animo eroico leopardiano rinforzato dall’amore, ma poi era stata ammessa una opzione per la vita durante il dominio dell’amore. Ma in Amore e Morte la mediazione indulgente

(solo per cui talvolta,

non alla gente stolta, al cor non vile

la vita della morte è piú gentile)

è violentemente scartata e lo sfondo dell’amore è senz’altro la morte, cosí come questa costituisce l’esito stesso dell’amore e, in fine, il valore assoluto di libertà cui l’uomo superiore e cosciente tende, per uscire dal tragico impasse della vita.

In realtà l’unione cosí romantica dei due valori assoluti (in opposizione alla mediocrità e alla frivolezza del vivere utilitaristico e illuso) tende ad avere la potenza unitaria del Pensiero dominante, ma viceversa (e qui è la piú importante differenza di questo canto dal primo) il tema di Amore e Morte si svolge sempre in una duplice direzione o in un prezioso incantamento dei due motivi che fa spesso sentire una necessità di composizione e l’incontro di toni piú languidi con toni piú forti. Qualcosa di piú madrigalesco (cioè persino il petrarchismo insieme al petrarchesco, vivo anche nel Pensiero dominante) si insinua nel tessuto severo del canto sin dalle prime battute, in cui pure l’originalità decisa del tema e la forza del primo sviluppo a simmetria portano una maggiore sicurezza di costruzione, la possibilità del solito tono di estrema decisione eroica e personale. Ma certo i due poli (Amore e Morte), per quanto intrecciati e sentiti all’origine fratelli e condizionantisi (ma piú indispensabile si rivela in realtà la morte), provocano un certo caratteristico ondeggiamento quasi di danza che alleggerisce, ma a volte impreziosisce la struttura del canto sempre ispirato nelle sue ragioni piú profonde da quel senso della personalità superiore e violentemente affermata, che dà vigore anche alle note piú blande o ai punti piú madrigaleschi.

Soprattutto nelle tre strofe iniziali il tema agisce nella maniera piú complessa movendo contrapposizioni eleganti e sottolineature energiche, che sempre indicano l’energia che domina anche situazioni piú tenere e madrigalesche.

Cosí nei quattro versi iniziali bellissimi

(Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

ingenerò la sorte.

Cose quaggiú sí belle

altre il mondo non ha, non han le stelle).

un impeto non dissimile da quello del Pensiero dominante realizza l’originalità dell’accordo inventivo e sorregge robustamente la mirabile costruzione a specchio che altrimenti potrebbe decadere a trovata e ad artificio metrico. E tutto il lungo svolgimento della prima strofa mostra quest’originalissimo incontro di una tecnica raffinatissima e di una potenza poetica, di una certa preziosità neoclassica e di una costruita urgenza romantica che prevale nei momenti decisivi e guida le lunghe strofe risollevando con il linguaggio forte e con ritmi sicuri, anche i passi piú sinuosi e insidiati da un certo languore o da un certo gusto di precisazioni quasi ragionative come alla fine della prima strofa. Quanto al linguaggio si pensi in questa strofa al «perigliar», al «codarda gente» e al dantesco «per lo mar dell’essere» e a quella stessa espressione finale che ben rivela anche l’impostazione di morale eroica che in questo ultimo periodo leopardiano si presenta con caratteri di volontà esplicita e di traducibilità poetica del tutto nuovi.

E l’inizio della seconda strofa cosí ampio ed arioso, slanciato ed energico, indica la ricchezza di questa poesia, capace nella sua struttura potente di mosse rapite, abbandonate, ma sempre riprese, sorrette e superate da una tensione che non lascia mai prevalere un canto trasognato e nostalgico:

Quando novellamente

nasce nel cor profondo

un amoroso affetto,

languido e stanco insiem con esso in petto

un desiderio di morir si sente...

Il movimento si fa cauto con i due «forse» dei vv. 34 e 36, si espande con una pienezza simile a quella delle estasi del Pensiero dominante («nova, sola, infinita / felicità...»), ma poi, cosí denso e carico di passione risolta in musica, si risolleva in un ritmo piú forte, in una mossa e in un’immagine persino troppo rumorosa:

dinanzi al fier disio,

che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

E il verbo «brama» usato per indicare il desiderio della morte è quasi simbolo, nella sua forza, del tono caldo ed intenso di questa poesia.

L’energia che in questo finale si fa persino turgida e rumorosa, trova poi la sua misura migliore nell’inizio della terza strofa:

Poi, quando tutto avvolge

la formidabil possa,

e fulmina nel cor l’invitta cura...

Ma dopo questa prima parte la strofa si articola in quadri di un colore un po’ scialbo e di una scarsa forza, mentre in un certo gusto fra aulico e popolaresco (un ritorno sbiadito di toni piú precisi di altri periodi) le forme forti sono pervase da un sottile languore piú sentimentale ed esteriormente romantico. Come soprattutto nei quadretti del villanello «ignaro» e della donzella «timidetta e schiva», in cui il tema della morte si colora di tinte blande e gentili («la gentilezza del morire intende») e la tragedia della passione prende un tono giovanile e leggiadro.

Sulla fermezza della chiusa che contiene ironia e sdegno contro la mediocre saggezza degli uomini comuni, si prepara il nuovo slancio dell’ultima strofa che conclude con mosse omogenee a quelle della prima stanza, il vero e proprio tema di «amore e morte»:

Ai fervidi, ai felici,

agli animosi ingegni

l’uno o l’altro di voi conceda il fato,

dolci signori, amici

all’umana famiglia,

al cui poter nessun poter somiglia

nell’immenso universo, e non l’avanza,

se non quella del fato, altra possanza.

Ma il vero tema di quest’ultima strofa è il tema della morte invocata fuori di ogni appassionato e prezioso accordo con l’amore, fuori di quell’aria elegante di mito neoclassico del fanciullo amore e della bellissima fanciulla morte. Il ritmo si fa piú battuto, il linguaggio piú denso, e dopo un primo impeto, l’ultimo grandissimo movimento iniziato al v. 108, disperde ogni aria di gentilezza preziosa (ma rimane quel candore appassionato e virgineo che c’era già nell’inizio), supera ogni indugio di tenerezza, e l’inno alla morte del piú grande romantico italiano si leva in una estrema potenza lirica e in un controllo artistico che ben corrisponde a questa nuova poetica della personalità persuasa del proprio valore e dell’energica tensione. Come nel Pensiero dominante la personalità del poeta si ergeva eroica contro il mondo frivolo identificandosi con il valore in quel momento adorato, qui si identifica con l’assoluto della morte ed urta combattiva e serena contro la stoltezza del mondo credulo e frivolo, contro la violenza crudele e cieca della natura. Pagina essenziale per la protesta romantica e per l’atteggiamento leopardiano come il finale del Dialogo di Tristano, ma soprattutto altissima prova dell’altezza e della coerenza poetica dell’ultimo Leopardi. L’impeto lirico appoggiato sulla posizione iniziale eroica del «me certo troverai..., erta la fronte, armato / e renitente al fato», ha un ingorgo potente e cupo al centro, quando la sintassi comune è travolta e sostituita da una originalissima sintassi lirica in corrispondenza con l’estrema protesta del romantico contro un potere arcano e spietato e contro la credula e arrendevole pietà degli uomini, e si svolge in una immagine e in un movimento misurati e sommessi, ma ugualmente decisi e densi:

Me certo troverai, qual si sia l’ora

che tu le penne al mio pregar dispieghi,

erta la fronte, armato,

e renitente al fato,

la man che flagellando si colora

nel mio sangue innocente

non ricolmar di lode,

non benedir, com’usa

per antica viltà l’umana gente;

ogni vana speranza onde consola

sé coi fanciulli il mondo,

ogni conforto stolto

gittar da me; null’altro in alcun tempo

sperar se non te sola;

solo aspettar sereno

quel dí ch’io pieghi addormentato il volto

nel tuo virgineo seno.

3. A se stesso

Mi sembra indubitabile che nel periodo fra Amore e Morte e A se stesso si collochi anche quel canto infelice e sbagliato che occupò molto la critica precrociana per la sua datazione e il suo valore: Consalvo. Certo questo canto ha una nascita ambigua, fra idillio (Telesilla ecc.) risentito in un periodo maturo ed un bisogno di tensione ed affermazione del nuovo periodo. L’abuso di particolari patetici in una musica languida e febbrile, la impostazione di fantasticheria erotica indugiante nei punti piú interessanti da un punto di vista narrativo e drammatico, snaturano la nuova poetica che pure è presente in maniera chiarissima (a parte il ritorno del motivo che affascinava il Leopardi in quel periodo: «due cose ha belle il mondo: Amore e Morte») nelle forme tipiche di affermazione e negazione perentoria, nel rilievo agli stacchi, alle contrapposizioni. Poesia che testimonia uno sforzo ibrido fra poesia e biografia e corrisponde certo ad un turbamento erotico che è il grado inferiore dei puri motivi degli altri canti di quegli anni fiorentini. Uno sforzo che su piano meno alto aveva portato il Leopardi ad affermare in un tono caldo ed eccitato la possibilità della felicità sulla terra:

Lice, lice al mortal, non è già sogno

come stimai gran tempo, ahi lice in terra

provar felicità (vv. 123-125).

Perché è chiaro che qui Consalvo è un prestanome e un ritratto accarezzato e romantico del Leopardi stesso.

Ma nel brevissimo canto A se stesso queste concessioni psicologiche, di fantasticheria erotica, vengono risolutamente annullate e dopo tante cadenze patetiche nel Consalvo, si ritorna con uno strappo potente alla seria intensità e alla poetica piú cosciente del Pensiero dominante e di Amore e Morte. Ed anzi in questi sedici versi, che troppo spesso sono stati scambiati con una forma travestita di prosa e quasi di appunto diaristico, la poetica eroica dell’ultimo periodo leopardiano trova un esempio perfetto ed estremo. Il torbido fantasticare di Consalvo, suggerito evidentemente da sogni di compenso in una vicenda amorosa sfortunata ed incerta, viene provvidenzialmente spazzato da una nuova presa di coscienza personale, da una affermazione dura e sicura, il cui appoggio biografico è naturalmente assai incerto nella sua precisione di cronaca. A noi basta sapere che l’amore fiorentino finí in un tragico disinganno che poi vivrà poeticamente nell’estremo tentativo platonico di Aspasia: ma guai a voler dedurre il tono della poesia dal tono di un’avventura biografica! Ben lungi da una poesia gelida o esteriormente disperata come si potrebbe ricostruire partendo dalla vicenda del disinganno amoroso. Perché ciò che si deve subito chiarire è il tono di questa poesia: il tono della persuasione e dell’affermazione personale, vivo e forte contro ogni condizione di bruta realtà o di frivola stoltezza umana che per il Leopardi vengono a coincidere in un disvalore unico. Non si tratta di un momento di disperazione amara e cattiva non solubile nella vera poesia leopardiana generosa e nobile.

La persuasione della bruttezza della vita, della malvagità della natura, della stoltezza degli uomini e della loro infelicità ineliminabile è sempre piú chiara e decisa, come decisa è la coscienza della propria grandezza e della propria «verità». Soprattutto coscienza di altezza e verità, e coincidenza di persuasione del proprio valore e del valore delle proprie idee.

Ma anche qui il tono combattivo e affermativo non cambia e la delusione amorosa fa cadere sí un motivo che fu capace di vita, ma non quel centro intimo di forza risoluta che in quel motivo aveva trovato un pretesto di affermazione. E lungi dal rinchiudersi, come negli idilli, nella nostalgia del passato o in una pacificazione di armonia e canto, e comunque in un rifiuto dell’amaro presente, il Leopardi di A se stesso assume un atteggiamento anche piú deciso e la separazione fra tutto ciò che è disvalore e il centro piú sicuro di giudizio e di affermazione si fa sempre piú violenta raggiungendo limiti estremi.

Il «te» che è coinvolto nel disprezzo di ogni realtà bruta e di ogni mondana stoltezza è quasi la parte di sé che ha ceduto agli inganni e che viene separata dal centro piú intatto. Ma evidentemente l’oggetto della violenta protesta contro ogni retorica è la natura, il suo potere malvagio, contro cui si svolgerà tutta la polemica dell’ultimo Leopardi. E si ricordi che è di questo periodo, forse di poco anteriore a questo canto, l’abbozzo dell’inno ad Arimane che, al di là di quello che può apparire uno sfogo momentaneo, allarga e consolida l’impressione della rivolta «titanica» (secondo la terminologia romantica che, piú esteriore, si addice pure a questo Leopardi come a De Vigny o a Shelley):

«Re delle cose, autor del mondo, arcana

malvagità, sommo potere e somma

intelligenza, eterno

dator de’ mali e reggitor del moto».

Anche lí disprezzo per la tragica potenza del «brutto potere» e la tipica bestemmia romantica («ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà») e le dichiarazioni di resistenza («ma io non mi rassegnerò»). Cosí in A se stesso una rivolta e un rifiuto energico sorreggono una concentrazione poetica di motivi essenziali e non momentanei.

Ciò che infatti piú colpisce un lettore non prevenuto da un giudizio in funzione di schemi esterni, è l’estrema essenzialità di motivi e di espressione. La delusione sofferta (per la cronaca il rifiuto della Fanny, per la storia intima, che solo conta in questo caso, la caduta del mito Fanny, la rottura della coincidenza fra la donna e l’immagine che il poeta se ne era creata) è ridotta alla replicata parola «inganno», «estremo inganno», «cari inganni»; e se la seconda volta la parola è resa come piú affettuosa e nostalgica, il motivo tragico (il motivo dell’inganno estremo e del suo inesorabile «perire») si presenta col tono di una sventura universale, sentita ben al di là delle sue condizioni di cronaca. E tale senso solenne, assoluto (come nel giovanile Infinito quell’espressione di smarrimento e di estasi assume un tono religioso e universale) è realizzato potentemente mercé lo strumento della nuova poetica, di cui questo canto è un esempio veramente estremo.

Il rifiuto da parte dell’ultimo Leopardi di ogni armonizzazione di immagini idilliche, paesistiche è qui portato al massimo e nei 16 versi non risuona un’eco blanda come non affiora l’accenno di un’immagine. Per questa mancanza A se stesso è sembrato a molti una prosa gelida, da appunto. Ma si guardi attentamente il movimento interno del canto: le brevissime frasi non sono fredde e riassuntive, ma rappresentano degli slanci contenuti da una forza stilistica superiore, movimenti lirici (e si sfugga una lettura drammatica enfatica e singhiozzante!) rappresi in una estrema concentrazione. Non dunque appunti o frasi da recitazione: il solito ritmo ascendente tende i singoli membri ed aumenta la forza delle pause, mentre l’uso abbondante di legame fra i versi, di tipici enjambements supera l’eccessiva frattura del periodo costituendo quasi una linea piú vasta e mossa solo da stacchi potenti e da pause profonde intrinseche a questo canto senza dolcezza e senza compensi immaginosi o di alone musicale. La ricchezza di mezzi stilistici, la consumata esperienza di effetti fonici sono completamente adibite al movimento di negazione e di denuncia della natura e quel solito colore interno, quella forte musica spirituale e personale quasi senza riferimenti sensuosi, che è tipica dell’ultimo Leopardi (e che è troppo comodo ridurre a non-poesia, mentre è una poesia che risponde a particolari condizioni ed è retta da una cosciente poetica), domina senza pericoli in questa poesia battuta e insistente, fatta di parole essenziali a indicare separazione ed energia, ricca di avverbi piú che di aggettivi, di forme vigorose e secche.

Come l’inizio, che sembra la conclusione di precedenti meditazioni nel distacco di un presente sicuro e cosciente da un passato di turbamento:

Or poserai per sempre,

stanco mio cor.

Il presente è in questi canti sempre la posizione della affermazione personale e il passato viene respinto come momento inferiore nel suono cupo ed assorto, nel perentorio distacco operato dalle due forme avverbiali: «or», «per sempre».

Tono perentorio, assoluto, accresciuto dalle forme senza meditazione: «inganno estremo», «eterno», «perí». La formidabile forza di sentimento si traduce in ritmo, in un ritmo contenuto e in tensione, non frammentario ed epigrafico: un ritmo che è la traduzione diretta di una indomita coscienza personale in una espressione spregiudicata ed originale. Ritmo che si serve di brevi frasi, di membri che ferma appena si svolgono, per mantenerli in tutta la loro intera potenza: come quel «perí» che, nella ripetizione piú assoluta e nuda dell’inizio del movimento precedente, porta una forza di decisione piena e una sottolineatura di estrema energia.

Il quarto movimento, dopo una conclusione cosí risoluta, propone un tema nuovo in una forma piú complessa e pausata

Ben sento,

in noi di cari inganni,

non che la speme, il desiderio è spento.

e prepara con la sua ampiezza maggiore una nuova serie di membri brevi e violenti

Posa per sempre. Assai

palpitasti.

in cui dal consiglio iniziale si passa ad un comando piú reciso, mentre il secondo membro con il suo legame tra i due versi e la ricchezza di vocali che lo allungano quasi in un intenso sospiro, apre la serie delle amare conclusioni sulla vita, in cui le parole piú leopardiane e piú nude (e prive, si noti bene, di aggettivi capaci di colorire e di variare una musica cosí essenziale) si raccolgono in un movimento martellato e ripetuto, con l’energia di certe battute degli ultimi quartetti beethoveniani. Poi con una certa simmetria rispetto ai due membri già notati ai vv. 6-7, due nuove battute ugualmente impostate

T’acqueta omai. Dispera

l’ultima volta.

e uno di quei comandi leopardiani che in questo canto risuonano in accordo con questo tono di giudizio assoluto, con questo cupo tono di «sempre», di «mai», di «ultima volta». E in fine l’ultima frase, la piú lunga del canto, ma anch’essa tutta irta di stacchi e di accenti senza abbandono, di pause che riproducono la linea rotta e a blocchi del canto, anche nel grave suono d’organo dell’ultimo verso:

Omai disprezza

te, la natura, il brutto

poter che, ascoso, a comun danno impera,

e l’infinita vanità del tutto.

Verso grandioso in cui le grandi, nude parole leopardiane (e dietro la suggestione non casuale del «vanitas vanitatum» dell’Ecclesiaste) riassumono, nella conclusione piú vasta, il ritmo scandito di tutto il canto.

Esempio estremo della nuova poetica abbiamo detto: e veramente mai il Leopardi aveva raggiunto una espressione cosí romantica, un tipo di discorso lirico cosí nuovo e spregiudicato e pur cosí poeticamente essenziale. Ritmo e forza suggestiva delle parole coincidono in questo sforzo di espressione integrale della personalità in tensione.

Poi verrà la prova di Aspasia in cui il centro vero ed attivo, in una maggiore complessità di motivi (e con pericoli di dispersione), sarà pur sempre l’affermazione della propria personalità e del proprio mondo interiore nella tenace separazione di un presente vero e di un passato illusorio, di un’immagine sensuale e caduca e di un valore indiscutibile. E saranno sempre i tagli potenti, i rilievi, il rifiuto di abbandono, a caratterizzare la vita di quella poesia. E dopo la preparazione delle Sepolcrali da una parte e dei Paralipomeni, Palinodia e Nuovi Credenti dall’altra, verrà l’ultima grande espressione della poesia leopardiana, la Ginestra, il piú formidabile sforzo (e con quante cadute e con quanti pericoli) della nuova poetica non idillica per una poesia ambiziosa di messaggio personale e universale. E i caratteri stilistici essenziali non saranno diversi da quelli che abbiamo rilevato nell’esame di questi tre canti.